lunedì 11 giugno 2007

La grande morte del Votanikos

Synopsis in inglese

He was called Michalis Georgiou. He was an ordinary sailor. His half-mad brother mortally hated him and wasted away their fatherΆs property. One morning he escorted the NavyΆs money consignment. Two billion went through his hands. And it came into his mind. The Idea. The desire for money. The Idea for a robbery that would inevitably bring death. He planned it to perfection and considered everything. Yet in the end something went wrong. So that he could unexpectedly find love in the eyes of sweet little Niovi. Nevertheless, the Idea had not yet said its last word. It gave him another chance and he caused a bloodbath in Votanikos.



parte del libro tradotta in italiano



Colpo grosso all’Orto Botanico (O Megalos Thanatos tou Votanikou, ed. Kastaniotis)
(trad. di Maurizio De Rosa)

Capitolo Settimo
Il colpo

Lunedi Santo 8 aprile 1996
Ore 08.09
La jeep targata PN 308 era parcheggiata al termine del sentiero acciottolato che separava il Comando dalla sede della polizia militare. Era proprio davanti alla mia finestra. Poiche alla polizia militare non ne era rimasto nessun altro, il veicolo destinato a prendere in consegna gli uomini-rana era senza dubbio questo.
Quasi tutte le jeep della Marina Militare (erano Mercedes G tozze e squadrate a tre porte (due davanti e una dietro, posta lungo la fiancata). Erano blu e molto meno accessoriate dei corrispondenti modelli di serie (qualcuno mi aveva detto che l’assemblaggio delle varie parti avveniva nella citta di Volos). Il cassone era protetto da un telo e ospitava due panche-sedili capaci di accogliere, rispettivamente, tre passeggeri. Aggiungendo i due posti anteriori, il numero massimo di passeggeri trasportabili era otto. Le jeep della polizia militare, inoltre, erano fornite di sirena e di un lampeggiatore posto sul tettuccio, e sulle portiere recavano la scritta PM D/BOT.
Mi infilai sotto la carrozzeria per collocare la bomba. Si trattava di un’operazione tutt’altro che facile. Le costole mi facevano male e mi sentivo nervoso. Cercai di calmarmi. Non avevo molto tempo, c’era un flusso continuo di gente, ma se qualcuno si fosse avvicinato me ne sarei accorto dal rumore degli anfibi sui ciottoli. Fissai la prima cinghia e poi la seconda. Verificai che stesse al suo posto. Tutto bene: sembrava fissata con colla a presa rapida. Girai l’interruttore e un brivido percorse tutto il mio corpo. Vidi la spia rossa accendersi. L’avevo attivata. Un gesto inconsulto, e per me sarebbe stata la fine. Diedi un’occhiata in giro, uscii, mi scossi la polvere di dosso e feci ritorno al mio ufficio.

Ore 08.16
Mi chiusi la porta alle spalle e mi lasciai cadere sulla sedia con un sospiro rumoroso. Il telefono squillo e per poco non mi misi a gridare per lo spavento. Stranamente, non squillo una seconda volta. Mi rimisi seduto e presi lo zaino. Ne estrassi con grande cautela il telecomando, la pistola e un rotolo di nastro isolante nero. Infilai la pistola e la chiave che apriva il lucchetto dell’autorimessa nella tasca sinistra della giubba, e il portafogli, le chiavi di casa mia e una scatoletta di plastica in quella destra. Arrotolai l’orlo destro dei pantaloni, sistemai il telecomando sul lato della gamba e cominciai a svolgere il nastro isolante intorno per fissarvelo. Il lavoro riusci alla perfezione, e il pantalone era abbastanza largo da nascondere il telecomando agli sguardi indiscreti. Controllai il foglietto con la lista contenente le cose da mettermi in tasca, quelle che era normale avere con me e quelle che invece era meglio lasciare al mio ufficio. L’unica eccezione sarebbero state le sigarette. Non stavano da nessuna parte. Decisi di lasciarle nella tasca del giubbotto come se le avessi dimenticate. Se tutto fosse andato bene, nell’autorimessa c’erano ad aspettarmi due pacchetti. Alla fine del controllo, bruciai il foglietto e gettai la cenere dalla finestra.
Chiusi gli occhi e ripetei a mente i miei gesti. Se qualcuno mi avesse visto, avrebbe pensato che stessi pregando. E forse era proprio cosi. Pregavo per me stesso fregandomene di tutto il resto. Sentii alcune voci provenire dalla finestra. Tesi l’orecchio. Erano alcuni marinai della polizia militare, giunti a prendere la jeep. Non sentivo la voce di quell’imbecille di Portokulakis. E infatti si trattava di Makrionitis e di un altro. Peccato che a prenderla sarebbe stata il mio commilitone Thodoros.

Ore 08.29
“Hai visto, no, che Portokulakis e Pupas li hanno mandati al Distretto dell’Egeo a prelevare i detenuti. Fammi il favore”.
E va bene, Makrionitis, ma domenica non mi fregare senno ti faccio un culo cosi, intesi?”.
“Tranquillo, Beghleri, quel che e detto e detto. Stasera rimani qui tu e domenica penso a tutto io, ok?”.
“Ok”.
“Bene, adesso vado”.
E fu cosi che Thodoros Makrionitis ando a casa sua e a prendere gli uomini-rana ci mando Karaghiannos, una perfetta testa di cazzo che avevamo soprannominato “Beghleri” perche dalla mattina alla sera teneva in mano l’omonimo gingillo scacciapensieri. Dio solo sa che cosa aveva da fare di tanto importante Thodoros da indurlo a rinunciare al riposo domenicale e a farsi sostituire da Beghleri, che era prossimo al congedo e quella sera era persino in libera uscita. Qualunque cosa fosse, gli aveva salvato la vita. Per me, invece, cominciavano i problemi. In che modo si sarebbe comportato Beghleri? Era l’unico che non avessi preso in considerazione. Era quasi al congedo e avrebbe guidato il furgone portavalori? Difficile. E avrebbe preso la scorciatoia, come Pupas, o avrebbe preferito l’incrocio con il semaforo?
Sali a bordo della jeep e mise in moto. Il mio orologio segnava le otto e trentasei. Mancava poco al grande momento. Ero teso come una corda di violino. Mi accesi una sigaretta, feci tre tiri e la spensi nel posacenere. Feci un ultimo giro di perlustrazione. Le chiavi della mia Fiat si trovavano sul tavolo, il cellulare, disattivato, era nella tasca del giubbotto insieme alle sigarette. Tutto doveva lasciar credere che la morte avesse colto me, come tutti gli altri membri della missione, del tutto di sorpresa. Chiusi a chiave la porta dell’ufficio, attraversai il corridoio e mi diressi verso la ragioneria. La porta dell’ufficio di quel coglione era chiusa. Bussai, sentii un grugnito provenire dall’interno ed entrai.

Ore 08.45
Stava divorando una gigantesca sfoglia al formaggio ed era ricoperto da una montagna di briciole. Le sue guance pallide e grassocce oscillavano a ritmo regolare seguendo il movimento delle mandibole intente a masticare bocconi cosi grandi che chiunque altro ne sarebbe rimasto soffocato. Mi rivolse un’occhiata come se fossi venuto a chiedergli l’elemosina e ricomincio a mangiare. Aspettai. Le mascelle spezzavano e masticavano come macine di pietra. A un certo punto inghiotti anche l’ultimo boccone e comincio a pulirsi. Alzo gli occhi e assunse un’espressione da idiota:
“Ancora te hanno mandato?”.
Annuii.
“Prendi i due zaini e aspetta all’uscita. Non andartene, eh?”.
(ad andartene sarai tu, animale)
“Ok”.
Davanti all’edificio l’attivita era frenetica. La voce del sottufficiale si sentiva ovunque, marinai confusi correvano su e giu trafelati e cani randagi in vena di giocare si rotolavano sull’erba. Si trattava di una normalissima mattinata al D/BOT.
Dalla porta d’ingresso sbuco una jeep della polizia militare che si fermo proprio accanto a me. Al volante c’era un ragazzino mai visto prima. Mi chiese:
“Per la Banca di Grecia?”.
“Dritto al suo cuore, amico. Recluta?”.
Ma prima che ottenessi risposta, corse fuori il suddetto coglione.
“Muovi le chiappe che siamo in ritardo”.
Apri lo sportello della jeep e mi accorsi che aveva i pantaloni bagnati..
(che testa di cazzo, e andato a pisciare e se l’e fatta addosso)

Ore 08.59
Salii anch’io, nella parte posteriore, e ci mettemmo in moto. Imboccammo il viale Kavalas e restammo imbottigliati. Prima, seconda, ancora prima poi ancora seconda, la recluta, che non aveva mai guidato una jeep, ci faceva ballare niente male. Quanto al coglione, per fortuna non aveva aperto bocca, fumava ostentando indifferenza, con l’aria di chi si sente soddisfatto, al sicuro, invulnerabile. A un certo punto la manica si sollevo e scorsi un “Longines” senza alcun valore. Di certo doveva sentirsi molto orgoglioso di quell’orologio. Non erano trascorsi due minuti che estrasse dalla tasca un cellulare ipertecnologico e compose un numero. Aveva chiamato un suo amico, al quale comincio a sciorinare una serie di stronzate. Io, intanto, cominciavo a sentir caldo, il nastro isolante avvolto intorno alla gamba mi procurava un prurito terribile, avevo paura che si staccasse a causa del sudore. Non smettevo di sfiorare sia la pistola sia il telecomando. La schiena mi doleva terribilmente. Inspiravo in profondita, mi sentivo soffocare. A poco a poco diventavo preda di un’ansia sorda, della paura, del terrore,
(calmati!)
il sudore mi scivolava lungo la schiena, sulla fronte, ovunque. Cercai di distrarmi guardando fuori, stavamo attraversando piazza Omonia,
(calmati, calmati, calmati)
ma a un tratto mi sentii il cranio perforato da una fitta lancinante. Fui sul punto di svenire e dovetti fare un respiro profondo prendendomi la testa tra le mani. Il coglione aveva concluso la telefonata e si volto verso di me.
“Tutto bene?”.
“Si, solo che ho un gran caldo…”.
“Strano, la temperatura non e cosi alta, oggi. Dovresti dimagrire un po’…”.
(perche, tu no, brutto maiale?)
“… che cazzo, un giovanotto come te che non resiste a un po’ di caldo. Voi giovani d’oggi… Sempre a lamentarvi… Cosa dovrei dire io… Che ne ho passate di tutti i colori… Voi invece avete avuto la pappa pronta…”
(saro clemente con te, visto tutto quello che hai passato)
Continuo per un pezzo con questo tono autoencomiastico. La sua petulanza, pero, sorti un effetto positivo su di me, mi asciugai la fronte sudata e quando sollevai lo sguardo, vidi la sede della Banca di Grecia.

Ore 09.32
La recluta parcheggio davanti all’ingresso e scendemmo. A pochi metri di distanza era appena arrivata anche l’altra jeep della polizia militare con gli uomini-rana, guidata da Beghleris. Dunque, tutto era filato liscio. I ranocchi scendevano dal veicolo, sotto gli sguardi curiosi dei passanti. Indossavano la tuta mimetica ed erano armati tutti con G3. Erano un sottufficiale e cinque marinai. Due erano facce note, uno era mio commilitone. Mi feci da parte per non essere visto. Precauzione superflua. Uno di loro disse qualche stronzata e scoppiarono tutti a ridere in modo sgangherato, come altrettanti idioti. Non sarebbero stati dello stesso umore se avessero saputo che cosa c’era sotto la jeep. Rivolsi un saluto alla recluta, che fece subito marcia indietro. Intanto il coglione aveva gia imboccato la scalinata, io lo seguii ed entrammo nell’enorme salone.
Anche la volta precedente ne ero rimasto colpito. Era gigantesco e solenne. Aveva un gran numero di sportelli e a ogni angolo si aprivano corridoi e scale che conducevano ai livelli superiori e inferiori. C’erano almeno una dozzina di divani in pelle e altrettanti tavoli per la clientela.
Svoltammo a sinistra, dove si trovavano gli altri imbecilli degli ufficiali ragionieri, sdraiati sui divani come in un accampamento di zingari. Ero fortunato: il perfetto idiota, calvo, con tanto di baffetti e di occhiali, proveniente dalla caserma Palaska, era li. Mi vide anche lui. Mi riconobbe subito e fece una smorfia. Dio mio, ti ringrazio per avermi mandato questo cazzone. Cominciarono le battute e le prese per il culo da scuola elementare, del tipo:
“Com’e che sei cosi stanco? Te lo meni a sangue?”.
Poiche non c’erano altri marinai-sorveglianti-schiavi come me, mi misi in un angolo ad aspettare, da solo. Quegli idioti continuavano a scambiarsi battute. Aspettammo una decina di minuti, come la volta precedente. A un tratto si alzarono in piedi come un sol uomo e si diressero verso la scala che conduceva al sotterraneo. Presi gli zaini e il coglione mi disse:
“Ehi, non addormentarti”.

Ore 09.44
Li seguii lungo una scala stretta che conduceva a una stanza chiusa da un cancello metallico. Una guardia ci apri e ci fece entrare in una sala, poi un’altra porta si apri introducendoci nel paradiso. Era un ambiente normale, le cui pareti erano completamente ricoperte di scaffali. La maggior parte erano pieni di pacchettini a forma di mattoni. Si, era quello che pensavo. Si trattava di mazzette di banconote da cinquemila e da diecimila dracme: le riserve valutarie dello Stato, riposte e conservate con ogni cautela.
In quel momento comincio un nuovo giro di battutacce con il personale del caveau. Allusioni, ammiccamenti… Nessuno faceva caso a me. Era come se non ci fossi, dal momento che indossavo l’uniforme della marina e tutti sapevano che ero lo schiavo degli ufficiali ragionieri. Non avevo diritto di parola ne di opinione. Forse mi avrebbero dato un po’ piu di importanza se avessero saputo che ero armato. Ma forse non sarei potuto essere armato se avessero collocato un metal detector.
(ragazzi, e tempo che pensiate a collocarne uno…)
Osservavo le guardie. Fancazzisti di professione – uno aveva una pancia che non finiva piu – abituati a sorseggiare caffe mollemente sdraiati sulle loro sedie, sempre con la pistola alla cintura, naturalmente, anche se forse neanche si ricordavano piu come si usava. Era arrivato il momento di cominciare la procedura di carico delle mazzette. Prendevo di nuovo in mano il denaro, che forse, tra qualche ora, sarebbe stato tutto mio… Riempii undici sacchi, ma il denaro sembrava non finire mai. Occorsero altri sacchi, quattro per la precisione, piu i due zainetti del Distaccamento Orto Botanico. Erano all’incirca tre miliardi. Mi domandai a che cosa servissero. Cazzo, era Pasqua. Servivano a pagare la quattordicesima. Quei bastardi di ufficiali ne avrebbero avuti di piu. Ecco una cosa che mi era sfuggita. E che mi veniva come il cacio sui maccheroni. Che cosa avrei fatto del miliardo in piu? Ci avrei pensato in seguito.
(se sara possibile)
(se sarai ancora vivo)
E le valigie? Sarebbero bastate? Con ogni probabilita no. Avevo calcolato grosso modo le dimensioni di un mattone ed ero certo che due miliardi ci sarebbero stati. Tre, era difficile. In ogni caso, ci avrei pensato dopo, anche a costo di bruciarli.
(dubito che ce la farai)

Ore 10.10
Uscimmo nel cortile interno, dove ci aspettava il furgoncino. Niente era cambiato. Si trattava di un vecchio Ford Transit. Il portellone laterale era spalancato e il conducente si trovava gia al volante con il motore acceso. Davanti al furgoncino blindato c’era la jeep con gli uomini-rana. Scoppiarono ancora aridere. Non potevano certo immaginare quel che li aspettava. Il sottufficiale latro gli ordini:
“Forza, tutti a bordo. Bunamis, sul furgoncino”.
Guardai l’uomo-rana che arrivava. Non l’avevo mai visto prima, perlopiu si trattava di reclute giovanissime, fresche di addestramento, che si credevano padroni del mondo. La recluta in questione era un tipo biondo che piu biondo non si puo. Pero sembrava una solenne testa di cazzo. Al polso portava un “Rolex GMT” nuovo di zecca con la ghiera rossonera. Un vero spreco. Con il volto contratto per il dolore, caricai i sacchi e salii a bordo. Il mio posto era dietro a destra, sopra i sacchi pieni di soldi, accanto a un aggeggio d’acciaio che occupava la meta dello spazio. Era una grande cassetta di sicurezza. Quelli all’interno vi riponevano sacchi pieni di denaro e gli altri aprivano dall’esterno senza venire in contatto con il resto del veicolo. Ero letteralmente chiuso in una scatola d’acciaio. Soltanto davanti a me il campo era libero. Mi bastava e nel contempo mi avrebbe tenuto al riparo. Mi sedetti sui miliardi..

Ore 10.11
Entro nel furgoncino con in mano il G3. Sorrideva. Sembrava felice. Perche no? Non aveva problemi ne preoccupazioni di sorta. La flotta di suo padre navigava in tutti i mari del mondo generando un flusso continuo di soldi, gli studi all’universita di Londra, peraltro inutili, dal momento che il posto di direttore nell’azienda paterna non glielo toglieva nessuno, si erano conclusi. Due mesi prima aveva completato l’addestramento ed era diventato uomo-rana piu facilmente di quanto immaginasse.. Aveva vinto un’altra scommessa con se stesso. Oggi c’era soltanto questa missione da compiere prima di rincasare con la prospettiva di una notte brava. La sua Porsche nuova di pacca era parcheggiata davanti alla caserma. Ce l’aveva da appena cinque mesi. Era riuscito a convincere suo padre a comprargli il modello turbo. “Non c’e paragone, papa, e costa solo venti milioni in piu”. Poi c’era stato il problema del colore. Nera con la banda rossa dei freni a disco? O blu scuro con il salotto in pelle color crema? No, troppo banale. Meglio rossa. O argento. No, troppo discreta. Trovato, rossa! Rossa come il fuoco! Pensava al momento in cui sarebbe salito sul suo bolide, al profumo aristocratico della pelle e al telefono di bordo, un prodigio della tecnologia. Voleva telefonare a Lisa e chiederle cosa intendeva indossare quella sera. Una minigonna? Quanto mini? E una volta in macchina gli avrebbe fatto quello che gli aveva fatto la volta precedente? Si, la vita era bella, per quello aveva un sorriso perenne stampato sulle labbra. E perche aveva evitato quei cazzoni dei suoi compagni sulla jeep. Dio, ci mancava soltanto quel tirchio di Kongas che puzza come una carogna, o quel coglione di Vazeos. Per fortuna ha pensato a tutto Andreu. Lo tengo per le palle, quello stronzo! L’istruttore dei miei stivali, che se la fa con i travoni. Anzi, con le travone, come dice lui, che razza d’invertito. Una mia parola ed e fottuto, ah, ah! Si sistemo sul sedile posteriore del furgoncino blindato e continuo a sorridere. Non gli passava affatto per il cervello che forse non era tanto migliore di tutti quelli che lo circondavano.

Ore 10.12
Gli ufficiali ragionieri salirono per ultimi. Il perfetto coglione della caserma Palaskas e un altro salirono sul sedile anteriore, accanto al conducente, e il mio, del D/BOT, dietro, accanto all’uomo-rana.
Vidi la jeep mettersi in marcia, e ci muovemmo anche noi. Il nostro conducente era un tipo sui quarant’anni, con lo sguardo torvo e la barba di tre giorni. Indossava un giubbotto di cuoio con collo di pelliccia. Avevo notato un cellulare nel taschino della sua camicia e una pistola alla cintura. Con la ricetrasmittente annuncio la partenza e comincio a seguire a brevissima distanza la jeep che ci precedeva. Ogni tanto comunicava la nostra posizione con la ricetrasmittente. Finimmo imbottigliati anche se Beghleris aveva acceso la sirena.

Ore 10.19
Mi sentivo lo stomaco sottosopra, avevo conati di vomito e il corpo madido di sudore. Le costole mi facevano un male cane. Stringevo i denti per non gemere dal dolore. Ogni tanto sfioravo la pistola e il telecomando da sopra i pantaloni.
(sei sicuro di esserne capace?)
Devo, devo, devo. Posso farcela. Posso!
(sei ancora in tempo per mandare all’aria tutto)
Calma e sangue freddo, del resto siamo ancora lontani dal punto zero. Calma, cerca di rilassarti, concentrati sulle stronzate dei tuoi compagni.
“Te la sei scopata quella li con quelle tette enormi? Come chi, la tua collega!”.
Mi asciugavo senza sosta il sudore e guardavo l’orologio.

Ore 10.31
La dentro era un forno. Il cuore batteva all’impazzata, faceva male, il caldo era insopportabile, c’era un ronzio incessante, voci confuse, polvere, sporco, puzza di sudore e di chiuso, migliaia di biglietti di banca passati da miriadi di mani, che vi avevano lasciato sopra microni e untume. Il furgoncino blindato procedeva dritto verso l’inferno. Adesso marciavamo piu veloci, Beghleris con la sirena si faceva largo in mezzo alle macchine ferme ed eravamo sempre piu vicini alla destinazione finale.

Ore 10.35
Con tutta la cautela del mondo comincia a sfilare il telecomando. Il nastro isolante si staccava dalla pelle strappandomi i peli. Pero non mi faceva male, sentivo soltanto il sudore che colava, fiumi di sudore che bruciava come olio bollente. Quando ebbi terminato l’operazione, stavamo gia percorrendo il viale. Non mi aveva notato nessuno. Nessuno si era voltato a guardarmi neppure una volta. La meta di loro forse ignorava persino la mia presenza la dietro.
(non temere, tra non molto se ne accorgeranno)
Presi la pistola e cominciai a estrarla piano piano. Tolsi la sicura e mi assicurai che fosse pronta a spargere la morte. Eravamo nei pressi della caserma. Svolta, Begleris, svolta, coglione, ti prego, prendi la scorciatoia, non fermarti al semaforo, sei un nonno, possibile che non conosci la strada piu breve? Svolto a un tratto senza rallentare, non avendo visto alcun veicolo giungere in senso contrario. Grazie, Beghleris.
(la ricompensa tra poco)
Imboccammo la strada sterrata e fummo costretti a rallentare. Un ultimo passo, estrassi la scatoletta di plastica e l’aprii. All’interno c’erano due tappi di cera per le orecchie. Me li infilai in fretta. Subito l’acutezza del mio udito diminui notevolmente. Passammo davanti a un grande cantiere, non si scorgevano altri veicoli. La mia rimessa si trovava a due isolati di distanza. Il momento era arrivato. Non avevo mai provato, ne avrei potuto farlo, il funzionamento della bomba per valutare tutti i parametri a esso collegati. Non avevo idea degli effetti che avrebbe prodotto l’onda d’urto sul nostro veicolo ne della reazione del conducente e tutto il resto. Immaginavo che avrebbe frenato con un gesto istintivo e che subito dopo se la sarebbe data a gambe. Ma si trattava soltanto di supposizioni. La realta era sempre diversa. E ormai era troppo tardi per scoprirlo. Le battute continuavano senza sosta. Adesso! Adesso! Rivolsi il telecomando verso il culo della jeep davanti a noi e…

Ore 10.39.31
Premetti il pulsante.
Click.
(non… non e successo niente! Non e successo niente!)
CLICK!
E la mia vita cambio per sempre.


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Capitolo nono
Scappare



Mercoledi Santo 10 aprile 1996



Ore 00.58


Ero arrivato. Uscendo mi colpi il vento del bosco, fresco e profumato. La pioggia, qui, non era caduta, la terra era asciutta. Feci due giri intorno alla macchina per sgranchirmi le gambe, sempre tormentato dalle mie costole doloranti. Cominciai a dirigermi verso casa. Il buio era quasi completo e facevo fatica a non smarrire la strada.

Ore 01.08
Arrivai davanti al portone di ferro. Non era chiuso a chiave. Lo spinsi e lo aprii nel silenzio piu assoluto. Seguii il sentiero in terra battuta che conduceva verso casa. Di li a poco la scorsi in mezzo agli alberi, illuminata da una luce giallognola prodotta da alcune lampade da giardino a forma di fungo. Quandi mi avvicinai di piu, vidi che aveva dipinto i muri con un’orribile vernice blu e aveva costruito una rimessa di legno per due automobili. Tutto il resto si trovava al solito posto, esattamente come lo ricordavo. La camera da letto, al piano superiore, era iluminata, cosi come il salone al pian terreno. Un filo di fumo grigio usciva dal comignolo, indizio che il camino era acceso. Adesso ero vicino a un fungo luminoso, e dovevo stare attento. Ripresi il cammino correndo di albero in albero, finche raggiunsi il mio ulivo preferito. Il tronco robusto era coperto di crepe e di fessure. Mi inginocchiai e infilai un braccio, fino al gomito, in una di quelle cavita. Ne estrassi una scatola di metallo arrugginito. L’aprii non potendo evitare un cigolio, e presi il revolver di mio padre, avvolto in un panno di cotone. In un angolo della scatola c’erano alcune pallottole avvolte in un sacchettino di plastica. Provai l’arma. Funzionava alla perfezione. Clack. Il tamburo girava senza problemi. Lo caricai con cautela e poi, sempre facendo grande attenzione, mi diressi verso la veranda che stava davanti a me. La casa era immersa in un silenzio assoluto. Di Pavlos nessuna traccia. Provai ad aprire la porta d’ingresso. Era chiusa. Mi avvicinai alla porta della veranda, provai ad aprirla e questa volta ebbi successo. Infilai la testa all’interno con movimenti molto lenti. Il salone era vuoto e si udiva soltanto il piacevole crepitio della legna che arde. Muovendomi in punta di piedi mi diressi verso la scala a chiocciola. A poco a poco cominciai a sentire lo scroscio dell’acqua. Era sotto la doccia. Voltai la testa verso il camino. Il mio sguardo si soffermo su un dipinto mai visto prima. Sempre tenendo il dito sul grilletto, mi avvicinai per osservarlo meglio.. Non mi intendevo di arte ne quello era il momento migliore per occuparmene, tuttavia non riuscivo a staccare lo sguardo da quel quadro. Mi avvicinai ancora di piu. Raffigurava una Bentley verde degli anni Trenta, che sembrava sospesa nel vuoto, in viaggio nell’infinito, sulle ali del sogno. Dov’e che mio fratello si era procurato quel dipinto meraviglioso? Lessi la firma in basso a destra. “Adamakis ’94”. Voltai la testa e lo vidi. Tutto accadde in un lampo.
La fine. Un’esplosione di sentimenti e di immagini. Arriva e distrugge tutto senza che neanche te ne accorga. Ti senti terrorizzato, ti senti legato a una stanza che brucia. Cerchi di fuggire, ma non ci riesci, le fiamme ti avvolgono e ti inghiottono a poco a poco…
Vieni.

Ore 01.13
Il boato della pistola squarcio il silenzio della campagna, gridando una morte improvvisa e inaspettata. Lo stesso fragore che generava sofferenza si spense in un lampo, riecheggiando nei terreni circostanti e lungo i colli scoscesi che circondavano l’edificio isolato. Poi, come una lenta nevicata, il silenzio riprese con dolcezza il sopravvento. Rispetto all’eternita del mondo naturale niente era cambiato. I complessi meccanismi di quest’ultimo continuavano a funzionare indisturbati, le sue forze invisibili ad agire come sempre. Soltanto nella casa illuminata, al livello fragile e insignificante degli uomini, si era verificato un cambiamento: una vita umana era stata spezzata. Un corpo esanime con la testa perforata da una pallottola giaceva sul parquet accanto al camino. Schizzi di sangue erano sparsi ovunque. Altrettante tracce appena visibili del delitto. Come se un disperato meccanismo di autodifesa si fosse messo in azione: migliaia di soldatini microscopici – ciascuno grande quanto una gocciolina di sangue – erano stati scagliati in ogni angolo visibile e invisibile, affinche un giorno l’occhio esperto di un poliziotto della scientifica li individuasse e desse un contributo decisivo alle indagini per scoprire l’assassino.
Piegata di lato, quasi nascosta dietro un’enorme colonna di legno, ossia la gamba di una sedia, stava una pallottola di piombo. Era deformata, simile a un’automobile accartocciata in uno scontro frontale. La sua esistenza era finita. La sua missione era compiuta. Era stata scagliata a una velocita fenomenale e nel giro di qualche millesimo di secondo aveva infranto la barriera del suono. Poi si era imbattuta quasi subito in un oggetto solido, che aveva perforato distruggendone il contenuto, infine era uscita dall’altra parte descrivendo una parabola ed aveva interrotto il suo volo contro un muro di pietra, ai piedi del quale si trovava adesso.

Ore 01.14
L’uomo in piedi cercava di restare immobile. Le gambe gli tremavano, il respiro era affannoso e il cuore gli batteva all’impazzata. In una mano reggeva una pistola che aveva appena sparato un’unica pallottola. Una quantita inconcepibile di pensieri gli trivellava il cervello. In particolare uno. Si era macchiato di omicidio. Aveva troncato una vita umana. Fatto grave. Terribile. Ancora di piu, se la vittima e il fratello del carnefice.
L’uomo si era seduto. Lasciava trascorrere i minuti. Il tempo non era un problema. Suo fratello era appena passato all’eternita e lui aveva tutta la notte davanti per agire. Fino a quel momento avrebbe cercato di abituarsi al suo nuovo ruolo: quello del fratricida. Si diresse verso il mobile bar. Era pieno di whisky pregiati. Scelse una bottiglia di Bushmills invecchiato ventun anni e riempi a meta un bicchiere di cristallo. Con un gesto lo svuoto quasi completamente, e con il secondo bevve anche il resto, poi ne se ne verso ancora un po’. Lo bevve tutto d’un fiato e si appresto a recitare la sua parte…