venerdì 23 gennaio 2009

Demetrio Lucas (Dimitrios Mamaloukas) è nato ad Atene il 11-09-1968 dove vive.
E' Laureato in Filosofia presso l’ universita degli studi di Lecce.
E' uno dei piu promettenti scrittori del genere giallo e noir della Grecia.

Romanzi pubbliccati

1999 Finchè c’e alcool c’e speranza (Oso iparxei alcool iparxei elpida), romanzo, edizioni APOPEIRA (seconda edizione 2000).
Nel 2002 il regista Dimitris Makris ha realizzato un film con il titolo “Finche c’e alcool…” basato sul libro. La produzione era italogreca e le riprese sono state effettuate in Italia e in Grecia. Il film ha partecipato a due festival cinematografici internazionali ed è uscito nelle salle di Atene nel Maggio del 2003.

2003 La grande morte del Votanikos (O Megalos Thanatos tou Votanikou), romanzo giallo, edizioni KASTANIOTIS.

2005 Il sequestro dell’ editore (I apagogi tou ekdoti), romanzo giallo, edizioni KASTANIOTIS.

2007 La bibliotecca smarrita di Dimitrios Mostras (I chameni vivliothiki tou Dimitriou Mostra ), romanzo giallo, edizioni KASTANIOTIS.

2007 La quarta persona (To tetarto atomo) racconto in AA.VV. Delitti Greci (Ellinika eglimata), edizioni KASTANIOTIS. La raccolta 'e traddotta in italiano. (Edizioni Crocetti) info qui.

2008 La solitudine dell'asfalto (I monaxia ths asfaltou), romanzo, giallo, edizioni Livanis

2009 L' ultimo itinerario (To teleytaio dromologio) racconto in AA.VV. L' ultimo viaggio - Undici storie noir (To teleytaio taksidi- Enteka nouar istories), edizioni Metaixmio

2009 Ragazza che ti chiamano Fini (Kopela pou se lene Fini), romanzo, edizioni Livanis

Traduzioni (dall’ italiano)

2006 Michele Giuttari La loggia degli innoccenti edizioni Diigissi

Articoli, critiche letterarie

Dimitrios Mamaloukas scrive nel giornale Avgi tis Kiriakis e nelle riviste letterarie
Diabazo, Index, Na ena milo.

giovedì 22 gennaio 2009

La bibliotecca smarrita di Dimitrios Mostras

Capitoli 3 e 4 tradotti in italiano


Capitolo 3

ALDO

Il pomeriggio seguente ero a casa, mi ero preparato un caffé e mi ero messo a riordinare il salotto radunando i libri da vendere tramite l’annuncio. L’appuntamento con il collezionista che mi aveva telefonato era per le sette. Il suo nome, Aldo Ferretti, mi diceva qualcosa. Dovevo essermi imbattuto in quel nome in qualche catalogo, oppure l’avevo sentito nominare da qualche bibliofilo. Ma probabile che lo conoscessi anche di vista, se frequentava le aste di libri rari, come me. Mi aveva detto che gli interessavano anche i libri stampati in greco, cosa alquanto insolita per un italiano, a meno che non si trattasse di un collezionista molto esigente.
Erano esattamente le sette e cinque quando il citofono squillò. Premetti il pulsante per aprire il cancello, ma dopo mezzo minuto il suono si ripeté.
Chiesi chi fosse e mi rispose una voce maschile.
« Sono Aldo Ferretti, ci siamo sentiti l’altro ieri »
«Si, certo, salga, sono al sesto»
« Purtroppo, non posso, non c’e’ l’ascensore e… io… bloccato…-rotelle ».
Un autobus che passava davanti al palazzo distorse le sue parole, ma riuscii comunque a capire cosa stesse dicendo.
« Un attimo solo, arrivo », dissi e scesi veloce per le scale.
Si trovava all’entrata dell’ingresso seduto su una sedia a rotelle. Accanto a lui c’era una bionda. Erano talmente benvestiti, che sotto la luce della lampada centrale assomigliavano a dei manichini in una vetrina. Mentre mi avvicinavo guardai meglio Ferretti. Aveva un bel viso, dei lunghi capelli biondi pettinati con cura all’indietro e sotto alla gabardine beige indossava un completo sicuramente cucito su misura. Le scarpe erano di fattura artigianale e nuove di zecca. Portava dei guanti speciali dalle punte tagliate, immagino per poter spingere da solo la sedia a rotelle su cui era seduto. La bionda era vestita di nero. Dei pantaloni di pelle aderenti uscivano da stivali dal tacco alto, fasciavano i suoi fianchi per culminare in una pancia scoperta, visto che la giacca leggera che portava sopra era sbottonata. Un piccolo top manteneva fermi i suoi seni, pronti all’attacco. Mi stavo godendo l’esplorazione del suo corpo quando lui mi rivolse la parola e fui obbligato a distogliere lo sguardo.
« Il signor Milano ? »
« Si », dissi sorridendo.
« Aldo Ferretti. Tanto piacere».
Ci demmo la mano.
“Questa è Monique, la mia compagna ».
I suoi occhi erano del blu del cielo più limpido. Mi sorrise a stento, con sforzo, e subito abbassò lo sguardo. Feci in tempo a vedere i suoi seni tendersi sotto il top.
« Come temevo, l’assenza di ascensore ci pone qualche problema. Molti palazzi antichi mi sono stati preclusi proprio per questo motivo ».
« Mi dispiace… »
« Non ne ha alcuna colpa… E ora… immagino sia alquanto improbabile che mi trasportiate su per sei piani… » disse sorridendo, « per cui penso che bisognerà incontrarsi altrove, in luoghi a me più accessibili… »
« Se vuole », proposi, « Mi può dire quali libri le interessano. Li vado a prendere e andiamo in un bar qui vicino ad esaminarli con calma. Ce n’è uno in Largo Argentina, vicinissimo”.
Sembrò esitare.
« Eh, ma… non è la stessa cosa».
Non capivo cosa intendesse.
« Ce ne sono molti che le interessano ? »
« No, no, assolutamente »
« Ma allora… »
Rimase a guardarmi indeciso.
“Non voglio metterle pressione”, dissi tranquillamente. « Se preferisce, lasciamo stare… »
Dalla sua espressione capii che era proprio quello che non voleva. Si voltò verso la bionda e guardandola sembrò quasi chiederle il suo parere. Lei scosse le spalle. Bastò.
« E va bene. Mi interesserebbero i due tomi del Compendio di Chimica di Adito tradotti da Kostantinos Kumas, Vienna 1808. La copia che lei ha menzionato portare l’ ex libris di Dimitrios Mostras ».
« Va bene. Datemi due minuti », dissi e cominciai a salire le scale. Alla prima curva mi voltai verso l’entrata. I loro occhi erano fissi su di me e non so perché dei brutti pensieri si insinuarono nella mia mente.
Ritornai in fretta con i due volumi in una borsa di plastica e uscimmo. Notai solo allora che stava piovigginando. Alla faccia del cattivo tempo che imperversava su Roma negli ultimi giorni, io continuavo ostinatamente a portare il mio soprabito preferito, uno spolverino grigio, anche se sarebbero bastate poche gocce di pioggia per rovinarlo irrimediabilmente.
Camminavamo (Ferretti scivolando) in silenzio, percorrendo la strada pedonale vicino a Largo Argentina, con i ruderi antichi sulla nostra sinistra. Io lasciavo che la bionda ci precedesse, per poterla osservare meglio. Si era abbottonata la giacca nera fino al collo e l’unica occhiata che mi aveva lanciato era tutto fuorché amichevole. Doveva aver superato i trentacinque e il suo passo non era più leggiadro ma guardingo e esitante. Forse non si vestiva sempre così lussuosamente. Forse in altri tempi si muoveva in altre cerchie. Il suo sedere però, come pure il suo seno, erano ancora all’altezza della situazione.
Arrivati al bar, spalancai la porta di vetro e la bionda aiutò Ferretti a passare. Impossibile non catturare l’attenzione della gente, con la sedia a rotelle che percorse lo spazio lasciando strisce umide di acqua sporca sul pavimento bianco.
Ci dirigemmo verso un tavolo comodo sul fondo. Subito arrivò il cameriere. Ordinai un caffè, mentre Ferretti e la sua compagna scelsero una « Perrier ». Sotto la luce più forte del locale potei guardarlo meglio. Era indubbiamente un bell’uomo dai tratti gentili. Aveva spalle larghe, probabilmente un tempo si allenava quotidianamente.
« È di Roma ? » gli domandai un po’ a disagio.
« No, sono del Nord, ma negli ultimi anni abito qui ».
« È da tempo che colleziona libri ? Ho l’impressione di aver sentito il suo nome nell’ambiente dei collezionisti… »
«Abbastanza… Ne ho passate tante, signor Milano, l’invalidità è solo l’apice. I libri sono da sempre la mia passione, ma ora ho imparato a non farmi trascinare e ad agire con buonsenso. Sa, tutto si trova e tutto si sostituisce eccetto le vertebre rotte… Lei… si occupa da tempo di libri rari ? »
« Da circa otto anni, ma l’annuncio su Internet è recente ».
Non mi spinsi oltre e lui non fu indiscreto. In quella arrivarono anche le nostre ordinazioni. Monique bevve un po’ della sua « Perrier » e si scostò un ciuffo dei capelli con grazia. Attesi che mi guardasse. Appena i suoi occhi si posarono su di me ritrasse lo sguardo come colta di sorpresa.
« Bene. Possiamo vedere il suo Kumas?»
Tirai fuori i due tomi rilegati in pelle dalla borsa di plastica. Lui spostò i bicchieri e le bottiglie, li prese e li appoggiò davanti a sé. Li aprì velocemente alla prima pagina. Cominciò a sfogliarli esaminando attentamente ogni segno. In seguito, guardò a lungo gli ex libris di Mostras dietro alla copertina.
« È a posto », disse svogliatamente.
Mi parve come deluso. Mise i libri da parte come se non lo interessassero più. Strano comportamento per uno che per ottenerli si era spinto fino alla mia porta. Scambiò un’occhiata con Monique, bevve un po’ della sua bevanda e disse con indifferenza:
« Quanto chiede? »
« Quanto sta scritto nell’annuncio. Cinquecentocinquanta euro ».
« Va bene », disse senza cercare di trattare. Dopodiché, guardando distrattamente fuori, aggiunse : « Kumas sta cominciando a salire… »
Normalmente l’affare era concluso. Ora doveva solo tirare fuori i soldi e pagare. Ma lui se ne stava a fissare il bicchiere, pensieroso, senza fare alcun gesto. Non riuscii a trattenermi.
« C’è qualche problema ? I libri forse… »
Rispose solo quando Monique gli posò la mano sulla spalla.
« Come? No, no, non c’e nessun problema con i libri… ma se mi permette, vorrei domandarle una cosa… »
« Prego, signor Ferretti ».
« Ha forse altri libri che appartenevano a Dimitrios Mostras ? »
Dovetti pensarci un po’ su.
« Probabile… Non ne sono sicuro ».
« Lei sa chi era Mostras ? »
« Sì, ne ho sentito parlare, credo ci sia anche uno studio su di lui. Era un collezionista e aveva creato una grande biblioteca agli inizi del 19esimo secolo, è così ? »
« Sì, proprio così. Innanzitutto era un collezionista… Vorrei chiederle anche un’altra cosa… Ha forse un altro Kumas che apparteneva a Mostras ? »
Mi ricordavo qualcosa del genere. Un libro che mio padre teneva tra i suoi preferiti.
« Mi sembra di sì ».
Spalancò gli occhi ed ebbe uno scatto nervoso. Al poker non doveva essere un gran giocatore. Monique, al contrario, non batté ciglio.
« Forse i tre volumi dei Beni di Weiland ? »
« No, deve essere un unico volume ».
Aldo Ferretti trasse un profondo respiro e si sforzò di mostrarsi quanto più indifferente poteva. Anche se non ci riusciva.
« La Storia della Filosofia di Tenneman forse ? »
Si, era proprio quello. Ci aveva azzeccato al secondo colpo.
« Mi sembra proprio che sia quello. Dovrei controllare, anche se non è in vendita, fa parte della mia collezione privata ».
Si piegò in avanti abbassando un po’ la voce.
« É sicuro che sia la copia di Mostras ? » disse con impazienza.
« Quasi certo. Dovrei controllare però… Comunque, non ricordo di avere altro con l’ ex libris di Mostras ».
Sembrava eccitato. Monique tese le dita verso la sua mano, ma lui proseguì.
« Non è che si ricorda se, a parte l’ex libris, ci fosse anche una dedica di Mostras ? A suo fratello, Kostantinos ? »
Per la miseria, si che mi diceva qualcosa.
« Si…Forse… Anche se, come le ho detto, è da anni che non lo vedo»
Per quanto Ferretti cercasse di contenersi, il volto gli brillava.
« Non potrebbe fare un salto a prenderlo ? »
Monique gli strinse la mano. Mi parve che gli sussurrasse : « Si è fatto tardi » o qualcosa del genere e lui si rabbuiò. Gatta ci cova. Come la maggior parte dei collezionisti (o meglio, degli pseudo-collezionisti), ero diffidente. Forse avevo parlato troppo. Per guadagnare tempo, decisi di rispondere a mezze parole.
« Adesso ? Innanzitutto, come le ho detto, non è in vendita… e poi… » dissi la prima scusa che mi venne in mente « … devo averlo in Grecia, a casa di mio padre ».
Come attore non ero un granché. Dalla sua reazione capii che non se l’era bevuta. Vuotò il bicchiere di Perrier, respirò profondamente; stavolta la sua voce aveva una sfumatura evidentemente ironica.
« Signor Milano, l’oggetto principale della mia collezione sono libri che facevano parte della biblioteca di Dimitrios Mostras e in particolare quindici delle sedici opere, per la maggior parte delle traduzioni di Kostantinos Kumas, per il quale nutro un certo debole. Dico quindici perché l’ultima opera di Kumas e’ stata pubblicata successivamente alla morte dei due. Finora sono stato fortunato, come oggi con il Compendio di Chimica, e sono riuscito a trovare la maggior parte di essi, tra cui probabilmente il piu importante, i quattro volumi del Trattato di Filosofia. Ma ce ne sono due che sto cercando da tempo, il Compendio di Storia della Filosofia di Tenneman del 1818 e i tre volumi dei Beni di Wieland del 1814.
» Si può quindi immaginare la mia soddisfazione quando riesco a trovarne uno, e perdipiù, uno con una dedica di pugno dello stesso Mostras ».
Scossi la testa affermativamente.
« Lo desidero molto e posso offrirle tre volte il prezzo del suo valore sul mercato. Se poi non fosse in vendita, vorrei semplicemente vederlo ».
Adesso di cose che mi insospettivano ce n’erano due. Primo, che non si era rallegrato per niente per la Chimica che gli avevo portato e secondo, come potesse sapere della dedica.
« Come sa della dedica ? »
Sembrò preso alla sprovvista. Si guardò con Monique e si stropicciò le mani nervoso.
« Da una lettera di Mostras a suo fratello. In un’asta pubblica ho comprato trentadue lettere che appartenevano a Kostantinos Mostras. Quindici erano di suo fratello, Dimitrios. In una accennava al fatto che gli aveva spedito il libro in questione con una dedica. Il fatto che lei ce l’abbia è incredibile. Per questo dico, anche solo vederlo…”
« Le ho detto, probabilmente si trova in Grecia… »
«Se lei vuole avere il libro puramente in quanto testo, glielo posso sostituire con un’altra copia in stato ottimale e, ovviamente, posso colmare qualsiasi differenza lei voglia stabilire”
Cercai di eludere di nuovo e di cambiare argomento.
« Ora che ci penso, le lettere erano in greco, non è vero ? »
« Certo »
« Ed è riuscito a leggerle ? »
Sorrise.
«Vede, ormai, bloccato come sono, ho più tempo a disposizione per lo studio e la lettura. Già sapevo il Greco antico e il Latino (conoscenza imprescindibile per chi ha la nostra passione, il collezionismo di libri, non crede?) ma ora ho imparato anche il Greco moderno… Per di più, ho passato un anno intero in convalescenza a Creta .
Ma ci stiamo allontanando dal nostro tema, signor Milano. Se la copia si trova in Grecia, puo sempre farsela spedire. Vorrei ribadire che la desidero molto e che con la somma che le offrirò non avrà da pentirsene».
Rimasi in silenzio. Seguirono alcuni secondi di intenso imbarazzo.
« Bene, penso che abbiamo finito », disse infine. Tirò fuori dalla tasca un portafoglio di pelle, contò cinquecentocinquanta euro e me li diede. « Offro io, naturalmente. Mi ha fatto veramente piacere, signor Milano… »
« Anche a me », dissi e mi alzai porgendogli la mano.
« Ecco la mia carta da visita. Se permette, uno di questi giorni la chiamo. Potrebbe aver cambiato idea », disse con un sorriso misterioso.
« Come desidera », risposi e mi voltai verso Monique. « È stato un piacere ! » dissi.
Mi diede la mano, su cui si intravedevano le vene e i nervi. Aveva delle dita lunghe, forti, dalle unghie dipinte di una leggera tonalità di rosso. Mi strinse leggermente la mano e contemporaneamente mi sorrise rivelando una fila di denti perfetti e immacolati.
« Anche per me », disse con voce roca e subito si rinchiuse nella sua espressione malinconica.
Me ne andai sotto una pioggia torrenziale ; tempo di arrivare ero letteralmente fradicio. Salii gocciolante i sei piani nella luce astenica delle scale. Aprii la serratura di sicurezza e entrai a casa. Daniela, avvolta in una coperta, stava leggendo un libro seduta sul divano. Mi avvicinai e la baciai vicino alle labbra carezzandole il viso. Lei semplicemente chiuse gli occhi.
Dopo che mi fui cambiato, andai alla grande libreria di quercia, dove conservavo i volumi che costituivano la mia collezione personale. Trovai subito il libro rilegato in pelle e lo aprii velocemente al frontespizio. Lessi senza troppe difficoltà la dedica di Mostras, che, ovviamente, era scritta in greco. Si rivolgeva a suo fratello. Non c’era alcun dubbio sul fatto che fosse il libro che cercava Ferretti.
All’interno della copertina c’era incollato l’ex libris di Mostras, e nella dedica si firmava con le iniziali Δ. M., che corrispondevano al suo nome. Il fatto che non si trattava di un libro molto raro o prezioso minimizzava la possibilità che la firma fosse falsificata. Sì, non c’era alcun dubbio, era uno dei libri della collezione di Mostras, aveva una dedica sua, ma a parte questo, cosa poteva avere di speciale ? Perché Aldo Ferretti lo voleva così tanto?
Trascorsi il resto della serata davanti al computer cercando in Rete delle informazioni su Mostras e sui suoi libri, specie quelli di Kumas. Non trovai granché, ma nella biblioteca pubblica di Kozani, in Grecia, c’era il catalogo di una donazione di Mostras di sessanta libri. Tra di essi c’erano anche i quattro volumi del Trattato di Filosofia di Kumas. Quindi, Ferretti aveva mentito sul fatto che fosse in possesso della copia che apparteneva a Mostras o che Mostras avesse quella specifica opera in doppio e che perciò ne avesse regalata una.
Andai a dormire con la certezza che il giorno seguente avrei ricevuto una telefonata da Aldo Ferretti e che dietro questa faccenda si nascondeva un mistero che bisognava risolvere.

Capitolo 4

Daniela-Pino

Per le strade bagnate di Roma un uomo cammina veloce con passo nervoso. Ogni tanto lancia qualche occhiata di sfuggita attorno a sé. In mano tiene un giornale stropicciato, cercando di apparire come uno dei tanti, un uomo che ha da fare, ha degli obiettivi, una vita.
Ma non è cosi.
Pino è condannato. E lo sa benissimo. Sa di aver oltrepassato i limiti, perché non ha obbedito agli ordini, e capisce che difficilmente sfuggirà ai suoi inseguitori. Ha bisogno di soldi, di un nascondiglio e di una macchina. è riuscito a scappare da Palermo e ad arrivare a Roma. Sperava di trovare aiuto, ma ovunque sia andato, loro erano già lì. L’hanno seguito. Erano sempre dietro di lui. Lo ha visto. Lo ha sentito. D’altronde, anche lui fino a pochi giorni fa faceva esattamente lo stesso lavoro. Quelli che lo inseguono fino a poco tempo prima erano suoi amici. Ma nel suo lavoro (o almeno, nel suo ex lavoro) di amici non ce ne sono.
Pino è (o almeno, era) un killer della mafia. Ormai condannato. E questo perché ha tradito. E i grandi hanno emesso la sentenza contro di lui. Così, ora Pino corre come una lepre inseguita.
Sotto la pioggia battente cambia autobus a casaccio, entra nella metro, cammina. Senza programma. È sconnesso, stanco, bagnato. Almeno, per il momento, sembrerebbe che abbiano perso le sue tracce. Non li vede più, ma sa che è solo una questione di tempo prima che lo ritrovino.
Soldi, nascondiglio e auto. O anche solo una delle tre cose.
Cammina e il suo sguardo incontra una Madonnella in alto su un muro. Con la pioggia che le cade sul viso, trasportata dal forte vento, sembra quasi che stia piangendo. Dopo pochi passi Pino decide di entrare in un vecchio palazzo. è così stanco. Si giocherà tutto per tutto. Sente che la sua mente sta lavorando per raggiungere un unico obiettivo, una direzione. Sente che l’istinto del lupo, della sopravvivenza, lo possiede quasi completamente. Sente che dovrà lottare per salvarsi.
Se necessario, ucciderà.
Sale fino all’ultimo piano, il sesto, e si nasconde in un anfratto nelle scale buie. Guarda il suo orologio. Venti minuti alle cinque. Decide di sorvegliare l’unica porta del piano. La porta di un appartamento.

Daniela guardava la pioggia dalla finestra, si sentιva addosso l’umidità come se stesse per strada. Si trovava di fronte ad una grande decisione. Una decisione che le avrebbe cambiato la vita. Aveva preparato tutto. Ora non rimaneva che trovare il coraggio dentro di sé per realizzarla.
Si accese una sigaretta, aspirò forte e chiuse gli occhi. Ritornó al passato, al suo Paese. Si ricordava ancora quasi tutto. Dalla guerra, che le aveva strappato il padre, fino alla morte di sua madre. E poi, il peggio, la caduta libera. Orfana, l’ aveva presa in consegna uno zio che presto l’aveva spedita a Milano da qualche altro parente lontano. Impossibile dimenticarsi dei quattro anni di martirio in cui visse con lui, finché, senza quasi capire cosa stesse facendo, era salita su un treno ed era arrivata a Roma. Aveva vagato sola, infreddolita e affamata, finche non si era imbattuta in Nicola, il quale l’aveva letteralmente raccolta dalla strada.
Negli ultimi tempi, non passava giorno che non pensasse a sua sorella minore, che aveva lasciato laggiù, in Yugoslavia. Specie da quando aveva realizzato che certe persone potevano aiutarla.
Tutto era cominciato quando per caso aveva incontrato due sue connazionali al supermercato. Ancora non riusciva a capire come le fosse saltato in mente di parlargli. Loro avevano capito subito come stavano le cose. Le avevano spiegato e le avevano dato un numero di telefono. Le avevano detto di chiamare a qualsiasi ora ; e da fuori, non da casa.
Daniela lo aveva nascosto da qualche parte e se n’era dimenticata. Nel suo profondo era convinta che le cose sarebbero migliorate. Ma presto venne smentita e i suoi pensieri ripresero a tornare sempre più frequentemente a quel numero di telefono.
Pochi giorni prima, aveva trovato il coraggio di chiamare. Aveva parlato con una signora gentile, che le aveva detto di andare da loro, nei loro uffici, ma Daniela per pura paura aveva rifiutato. Cosi, la signora le aveva dato un numero di cellulare dicendole che c’era un signore che poteva aiutarla.
L’aveva chiamato una settimana prima. Aveva trovato il coraggio di raccontargli quasi tutto, o comunque, i punti più importanti. E adesso pensava ancora una volta a ciò che quell’uomo le aveva detto di fare. Era tutto pronto. Doveva solo aprire la porta. Trasse un respiro profondo e guardò l’ora. Erano le sette meno venti. Lui era partito alle cinque. Poco dopo, qualcuno aveva suonato alla porta spaventandola a morte. Intimorita, aveva guardato dall’occhiello. Nessuno. Dopo mezz’ora, avevano suonato di nuovo. Stavolta aveva aperto tenendo la catenella. Fuori c’era solo il pianerottolo buio.
Succeda quel che succeda, disse tra sé e sé e spense la sigaretta. Indossò l’impermeabile giallo, prese la borsa di stoffa e aprì la porta. Appena si girò per chiudere, una mano sudata le tappò la bocca e la scaraventò nell’appartamento. Daniela pensò che alla fine sì, la sua vita sarebbe cambiata, ma in peggio. E non aveva tutti i torti.
La spinse con violenza chiudendo dietro di sé la porta. Daniela cadde sul pavimento di legno, ma si rialzò fulminea e si girò verso di lui. Lui le piombò addosso.
Pino pesa centocinque chili. Daniela solo cinquantadue. Il parquet scricchiola sotto i loro piedi. Al muro di fronte è appesa una xilografia originale che raffigura Iano Laskari. Tra le mani regge un volume, molto probabilmente un manoscritto, e guarda come inquieto e teso la scena che si svolge davanti ai suoi occhi. Si direbbe che è in ansia per quelle due creature che tra pochi secondi si scontreranno violentemente, quasi assurdamente.
La logica è assente da questo appartamento nel cuore di Roma esattamente alle sette meno un quarto del pomeriggio. La logica è fuggita dalla mente di Pino. L’angoscia soffoca Daniela nell’istante in cui i loro sguardi si incrociano.
Uno sconosciuto.
Un uomo gigantesco.
Non ho paura. Mi sembra di essere altrove. Sembra che io sia lontano. Non sta succedendo a me.
Una fighetta. Solo una fighetta. Sicuro che si mette a strillare. Non deve strillare. Mi guarda. Mi vede. Nessuno mi deve vedere. Quando faccio certi lavori, non devono esserci testimoni.
Se gli parlo, mi ascolta? Questo gigante è in grado di ascoltare? Cosa vuole da me? Che gli ho fatto?
Daniela. Il suo respire brilla nell’aria calda della stanza mentre le mani come tenaglie di carne si chiudono attorno al suo collo immacolato.
Pino. Dita sporche, ferite. Unghie rotte, cicatrici, tagli, odore di morte. Dita che hanno portato la morte.
Daniela, che e nata appena vent’anni prima. Daniela, con un corpo perfetto che scoppia di salute.
Daniela, che ha fatto l’amore sul serio solo poche volte in vita sua. E ancor meno volte ha provato piacere.
Daniela, che un tempo aveva una sorellina. Che portava l’apparecchio. Per la quale era una dea. E con la quale un giorno forse si rincontrerà.
No, Daniela pensa che non è possibile morire proprio adesso. Deve vivere, per tutti questi motivi.
Davanti a lei c’è Pino.
Pino è un duro. Pino si è beccato il primo schiaffo prima di compiere due mesi di vita. è cresciuto nei riformatori e poi è andato in galera. Pino ha combattuto per non farsi violentare e ci è riuscito. È stato picchiato e ha picchiato senza pietà. Fino alla morte. Pino ha iniziato come sgherro ed è arrivato ad essere un sicario. Sbriga qualsiasi lavoro sporco. Fino ad ora non si è mai tirato indietro.
Adesso, tra le mani possenti e pelose tiene un sottilissimo collo di ragazzina dalla pelle così vellutata, che anche solo un bacio potrebbe lasciarvi un livido involontario. Sente la sua mano sul gomito. Non prova dolore. Solletico, più che altro. Fanno più male i suoi occhi.
Mi chiamo Daniela. Non stringere !
Daniela si rivolta, lotta. Le dita spalancano il giaccone aperta di Pino e affondano in un maglione di lana calda. Si aggrappano, graffiano e tirano decine di fili colorati. Ma Daniela va dove vuole lui. Ogni tanto le sue gambe abbandonano il pavimento. Pino la solleva come una piuma.
Non ho sofferto abbastanza ?
La stringe continuamente mentre emette un brutto odore.
Lei lo sente. Non importa, pensa. Basta che tu non mi uccida. Volge lo sguardo verso la finestra. Vede innumerevoli tetti bui e il campanile solitario di qualche chiesa. Ma vede anche delle luci, infinite luci. Da qualche parte laggiù ci sono delle persone. Da qualche parte laggiù c’ è qualcuno che può aiutarla. A non morire. Ma dov’è ? Ah, se la lasciasse !
Pino. Molta forza, poco cervello.
Pino, con una opinione confusa su ciò che significa vita umana. E su quanto possa valere.
Pino, che sa di essere spacciato. Che si sente perseguitato. Che farebbe di tutto pur di salvarsi. Pino, che ha ucciso altre volte. Che ha fatto cose ben peggiori dal continuare a stringere quel collo quasi infantile.
Daniela, che smette di lottare, vedendo che, se chiude gli occhi, smette di soffocare, smette di soffrire. Si abbandona tra le sue braccia.
Mi chiamo Daniela. E tu ?
Fuori la pioggia continua a cadere con la stessa intensità. Roma, città eterna. Come il male. L’unico suono che si sente nell’appartamento buio di Nicola Milano è quello che fa il corpo esanime di Daniela, quando cade sul parquet di legno.
Pino si asciuga il sudore dalla fronte. Obbliga se stesso a riprendersi. Si esce da un meccanismo di morte e si ritorna umani. Uomini fragili in pericolo. Comincia a frugare in fretta la casa. Dieci minuti alle sette.
Una casa piena di libri. A Pino non fa impressione. Non ha opinione in merito. Non gli interessa. Butta per terra i libri cercando contanti nascosti o qualche cassaforte. Ci mette un bel po’ a cercare in ogni stanza. Alla fine, guarda il bottino che ha racimolato. Pochi soldi e un cellulare. Né carte di credito né bancomat né chiavi d’automobile. Pino pensa che è proprio sfigato. Maledettamente sfigato. Non gli rimane che la ragazza. Si inginocchia su Daniela e comincia a frugare nelle tasche. Un altro cellulare, chiavi di casa con un ciondolo buffo e il portafoglio. Lo apre e ci trova circa cinquecento euro. Prende tutto frettolosamente perché sa di non dover rimanere oltre nell’appartamento. L’occhio cade sulla borsa da donna. Cerca per vedere se ci sono delle chiavi di automobile, ma niente. Butta dentro ogni cosa e la prende con sé. Prima di uscire si sofferma e si volta verso Daniela. Inizia a spogliarla con gesti frettolosi. Vuole confondere gli sbirri. Le toglie l’impermeabile, il pullover, la maglietta. Le abbassa i jeans. Poi le strappa le mutandine e apre con difficoltà il reggiseno. La guarda per un’ultima volta. Persino lui, un assassino che cerca di sfuggire al proprio appuntamento con la morte, non riesce a non provare un brivido di fronte al corpo nudo di Daniela. Poi esce cauto ficcandosi sotto la giacca la borsa di Daniela.
Ha smesso di piovere. Ma le tracce della pioggia sono ovunque. Piano piano la gente comincia ad uscire dai negozi illuminatissimi. Mamme che spingono i bambini nelle carrozzine. Uomini che reggono le ventiquattr’ore e guardano l’orologio. Ombrelli che si chiudono, risate che risuonano. Coppiette che camminano abbracciate. Nicola Milano esce dal bar con addosso lo spolverino. Da qualche altra parte, una signora cortesemente si fa da parte per far passare un signore. Pino non la nota perché il suo sguardo è fisso sull’icona, sulla Madonnella, che pare lo stia guardando con compassione. Sembra che lo perdoni. Si può perdonare tanto ad un condannato a morte, pensa Pino.
Daniela se n’e andata. Ma tutto, intorno a lei, continua ad esistere.

(traduzione di Anthi Keramida)

lunedì 11 giugno 2007

La grande morte del Votanikos

Synopsis in inglese

He was called Michalis Georgiou. He was an ordinary sailor. His half-mad brother mortally hated him and wasted away their fatherΆs property. One morning he escorted the NavyΆs money consignment. Two billion went through his hands. And it came into his mind. The Idea. The desire for money. The Idea for a robbery that would inevitably bring death. He planned it to perfection and considered everything. Yet in the end something went wrong. So that he could unexpectedly find love in the eyes of sweet little Niovi. Nevertheless, the Idea had not yet said its last word. It gave him another chance and he caused a bloodbath in Votanikos.



parte del libro tradotta in italiano



Colpo grosso all’Orto Botanico (O Megalos Thanatos tou Votanikou, ed. Kastaniotis)
(trad. di Maurizio De Rosa)

Capitolo Settimo
Il colpo

Lunedi Santo 8 aprile 1996
Ore 08.09
La jeep targata PN 308 era parcheggiata al termine del sentiero acciottolato che separava il Comando dalla sede della polizia militare. Era proprio davanti alla mia finestra. Poiche alla polizia militare non ne era rimasto nessun altro, il veicolo destinato a prendere in consegna gli uomini-rana era senza dubbio questo.
Quasi tutte le jeep della Marina Militare (erano Mercedes G tozze e squadrate a tre porte (due davanti e una dietro, posta lungo la fiancata). Erano blu e molto meno accessoriate dei corrispondenti modelli di serie (qualcuno mi aveva detto che l’assemblaggio delle varie parti avveniva nella citta di Volos). Il cassone era protetto da un telo e ospitava due panche-sedili capaci di accogliere, rispettivamente, tre passeggeri. Aggiungendo i due posti anteriori, il numero massimo di passeggeri trasportabili era otto. Le jeep della polizia militare, inoltre, erano fornite di sirena e di un lampeggiatore posto sul tettuccio, e sulle portiere recavano la scritta PM D/BOT.
Mi infilai sotto la carrozzeria per collocare la bomba. Si trattava di un’operazione tutt’altro che facile. Le costole mi facevano male e mi sentivo nervoso. Cercai di calmarmi. Non avevo molto tempo, c’era un flusso continuo di gente, ma se qualcuno si fosse avvicinato me ne sarei accorto dal rumore degli anfibi sui ciottoli. Fissai la prima cinghia e poi la seconda. Verificai che stesse al suo posto. Tutto bene: sembrava fissata con colla a presa rapida. Girai l’interruttore e un brivido percorse tutto il mio corpo. Vidi la spia rossa accendersi. L’avevo attivata. Un gesto inconsulto, e per me sarebbe stata la fine. Diedi un’occhiata in giro, uscii, mi scossi la polvere di dosso e feci ritorno al mio ufficio.

Ore 08.16
Mi chiusi la porta alle spalle e mi lasciai cadere sulla sedia con un sospiro rumoroso. Il telefono squillo e per poco non mi misi a gridare per lo spavento. Stranamente, non squillo una seconda volta. Mi rimisi seduto e presi lo zaino. Ne estrassi con grande cautela il telecomando, la pistola e un rotolo di nastro isolante nero. Infilai la pistola e la chiave che apriva il lucchetto dell’autorimessa nella tasca sinistra della giubba, e il portafogli, le chiavi di casa mia e una scatoletta di plastica in quella destra. Arrotolai l’orlo destro dei pantaloni, sistemai il telecomando sul lato della gamba e cominciai a svolgere il nastro isolante intorno per fissarvelo. Il lavoro riusci alla perfezione, e il pantalone era abbastanza largo da nascondere il telecomando agli sguardi indiscreti. Controllai il foglietto con la lista contenente le cose da mettermi in tasca, quelle che era normale avere con me e quelle che invece era meglio lasciare al mio ufficio. L’unica eccezione sarebbero state le sigarette. Non stavano da nessuna parte. Decisi di lasciarle nella tasca del giubbotto come se le avessi dimenticate. Se tutto fosse andato bene, nell’autorimessa c’erano ad aspettarmi due pacchetti. Alla fine del controllo, bruciai il foglietto e gettai la cenere dalla finestra.
Chiusi gli occhi e ripetei a mente i miei gesti. Se qualcuno mi avesse visto, avrebbe pensato che stessi pregando. E forse era proprio cosi. Pregavo per me stesso fregandomene di tutto il resto. Sentii alcune voci provenire dalla finestra. Tesi l’orecchio. Erano alcuni marinai della polizia militare, giunti a prendere la jeep. Non sentivo la voce di quell’imbecille di Portokulakis. E infatti si trattava di Makrionitis e di un altro. Peccato che a prenderla sarebbe stata il mio commilitone Thodoros.

Ore 08.29
“Hai visto, no, che Portokulakis e Pupas li hanno mandati al Distretto dell’Egeo a prelevare i detenuti. Fammi il favore”.
E va bene, Makrionitis, ma domenica non mi fregare senno ti faccio un culo cosi, intesi?”.
“Tranquillo, Beghleri, quel che e detto e detto. Stasera rimani qui tu e domenica penso a tutto io, ok?”.
“Ok”.
“Bene, adesso vado”.
E fu cosi che Thodoros Makrionitis ando a casa sua e a prendere gli uomini-rana ci mando Karaghiannos, una perfetta testa di cazzo che avevamo soprannominato “Beghleri” perche dalla mattina alla sera teneva in mano l’omonimo gingillo scacciapensieri. Dio solo sa che cosa aveva da fare di tanto importante Thodoros da indurlo a rinunciare al riposo domenicale e a farsi sostituire da Beghleri, che era prossimo al congedo e quella sera era persino in libera uscita. Qualunque cosa fosse, gli aveva salvato la vita. Per me, invece, cominciavano i problemi. In che modo si sarebbe comportato Beghleri? Era l’unico che non avessi preso in considerazione. Era quasi al congedo e avrebbe guidato il furgone portavalori? Difficile. E avrebbe preso la scorciatoia, come Pupas, o avrebbe preferito l’incrocio con il semaforo?
Sali a bordo della jeep e mise in moto. Il mio orologio segnava le otto e trentasei. Mancava poco al grande momento. Ero teso come una corda di violino. Mi accesi una sigaretta, feci tre tiri e la spensi nel posacenere. Feci un ultimo giro di perlustrazione. Le chiavi della mia Fiat si trovavano sul tavolo, il cellulare, disattivato, era nella tasca del giubbotto insieme alle sigarette. Tutto doveva lasciar credere che la morte avesse colto me, come tutti gli altri membri della missione, del tutto di sorpresa. Chiusi a chiave la porta dell’ufficio, attraversai il corridoio e mi diressi verso la ragioneria. La porta dell’ufficio di quel coglione era chiusa. Bussai, sentii un grugnito provenire dall’interno ed entrai.

Ore 08.45
Stava divorando una gigantesca sfoglia al formaggio ed era ricoperto da una montagna di briciole. Le sue guance pallide e grassocce oscillavano a ritmo regolare seguendo il movimento delle mandibole intente a masticare bocconi cosi grandi che chiunque altro ne sarebbe rimasto soffocato. Mi rivolse un’occhiata come se fossi venuto a chiedergli l’elemosina e ricomincio a mangiare. Aspettai. Le mascelle spezzavano e masticavano come macine di pietra. A un certo punto inghiotti anche l’ultimo boccone e comincio a pulirsi. Alzo gli occhi e assunse un’espressione da idiota:
“Ancora te hanno mandato?”.
Annuii.
“Prendi i due zaini e aspetta all’uscita. Non andartene, eh?”.
(ad andartene sarai tu, animale)
“Ok”.
Davanti all’edificio l’attivita era frenetica. La voce del sottufficiale si sentiva ovunque, marinai confusi correvano su e giu trafelati e cani randagi in vena di giocare si rotolavano sull’erba. Si trattava di una normalissima mattinata al D/BOT.
Dalla porta d’ingresso sbuco una jeep della polizia militare che si fermo proprio accanto a me. Al volante c’era un ragazzino mai visto prima. Mi chiese:
“Per la Banca di Grecia?”.
“Dritto al suo cuore, amico. Recluta?”.
Ma prima che ottenessi risposta, corse fuori il suddetto coglione.
“Muovi le chiappe che siamo in ritardo”.
Apri lo sportello della jeep e mi accorsi che aveva i pantaloni bagnati..
(che testa di cazzo, e andato a pisciare e se l’e fatta addosso)

Ore 08.59
Salii anch’io, nella parte posteriore, e ci mettemmo in moto. Imboccammo il viale Kavalas e restammo imbottigliati. Prima, seconda, ancora prima poi ancora seconda, la recluta, che non aveva mai guidato una jeep, ci faceva ballare niente male. Quanto al coglione, per fortuna non aveva aperto bocca, fumava ostentando indifferenza, con l’aria di chi si sente soddisfatto, al sicuro, invulnerabile. A un certo punto la manica si sollevo e scorsi un “Longines” senza alcun valore. Di certo doveva sentirsi molto orgoglioso di quell’orologio. Non erano trascorsi due minuti che estrasse dalla tasca un cellulare ipertecnologico e compose un numero. Aveva chiamato un suo amico, al quale comincio a sciorinare una serie di stronzate. Io, intanto, cominciavo a sentir caldo, il nastro isolante avvolto intorno alla gamba mi procurava un prurito terribile, avevo paura che si staccasse a causa del sudore. Non smettevo di sfiorare sia la pistola sia il telecomando. La schiena mi doleva terribilmente. Inspiravo in profondita, mi sentivo soffocare. A poco a poco diventavo preda di un’ansia sorda, della paura, del terrore,
(calmati!)
il sudore mi scivolava lungo la schiena, sulla fronte, ovunque. Cercai di distrarmi guardando fuori, stavamo attraversando piazza Omonia,
(calmati, calmati, calmati)
ma a un tratto mi sentii il cranio perforato da una fitta lancinante. Fui sul punto di svenire e dovetti fare un respiro profondo prendendomi la testa tra le mani. Il coglione aveva concluso la telefonata e si volto verso di me.
“Tutto bene?”.
“Si, solo che ho un gran caldo…”.
“Strano, la temperatura non e cosi alta, oggi. Dovresti dimagrire un po’…”.
(perche, tu no, brutto maiale?)
“… che cazzo, un giovanotto come te che non resiste a un po’ di caldo. Voi giovani d’oggi… Sempre a lamentarvi… Cosa dovrei dire io… Che ne ho passate di tutti i colori… Voi invece avete avuto la pappa pronta…”
(saro clemente con te, visto tutto quello che hai passato)
Continuo per un pezzo con questo tono autoencomiastico. La sua petulanza, pero, sorti un effetto positivo su di me, mi asciugai la fronte sudata e quando sollevai lo sguardo, vidi la sede della Banca di Grecia.

Ore 09.32
La recluta parcheggio davanti all’ingresso e scendemmo. A pochi metri di distanza era appena arrivata anche l’altra jeep della polizia militare con gli uomini-rana, guidata da Beghleris. Dunque, tutto era filato liscio. I ranocchi scendevano dal veicolo, sotto gli sguardi curiosi dei passanti. Indossavano la tuta mimetica ed erano armati tutti con G3. Erano un sottufficiale e cinque marinai. Due erano facce note, uno era mio commilitone. Mi feci da parte per non essere visto. Precauzione superflua. Uno di loro disse qualche stronzata e scoppiarono tutti a ridere in modo sgangherato, come altrettanti idioti. Non sarebbero stati dello stesso umore se avessero saputo che cosa c’era sotto la jeep. Rivolsi un saluto alla recluta, che fece subito marcia indietro. Intanto il coglione aveva gia imboccato la scalinata, io lo seguii ed entrammo nell’enorme salone.
Anche la volta precedente ne ero rimasto colpito. Era gigantesco e solenne. Aveva un gran numero di sportelli e a ogni angolo si aprivano corridoi e scale che conducevano ai livelli superiori e inferiori. C’erano almeno una dozzina di divani in pelle e altrettanti tavoli per la clientela.
Svoltammo a sinistra, dove si trovavano gli altri imbecilli degli ufficiali ragionieri, sdraiati sui divani come in un accampamento di zingari. Ero fortunato: il perfetto idiota, calvo, con tanto di baffetti e di occhiali, proveniente dalla caserma Palaska, era li. Mi vide anche lui. Mi riconobbe subito e fece una smorfia. Dio mio, ti ringrazio per avermi mandato questo cazzone. Cominciarono le battute e le prese per il culo da scuola elementare, del tipo:
“Com’e che sei cosi stanco? Te lo meni a sangue?”.
Poiche non c’erano altri marinai-sorveglianti-schiavi come me, mi misi in un angolo ad aspettare, da solo. Quegli idioti continuavano a scambiarsi battute. Aspettammo una decina di minuti, come la volta precedente. A un tratto si alzarono in piedi come un sol uomo e si diressero verso la scala che conduceva al sotterraneo. Presi gli zaini e il coglione mi disse:
“Ehi, non addormentarti”.

Ore 09.44
Li seguii lungo una scala stretta che conduceva a una stanza chiusa da un cancello metallico. Una guardia ci apri e ci fece entrare in una sala, poi un’altra porta si apri introducendoci nel paradiso. Era un ambiente normale, le cui pareti erano completamente ricoperte di scaffali. La maggior parte erano pieni di pacchettini a forma di mattoni. Si, era quello che pensavo. Si trattava di mazzette di banconote da cinquemila e da diecimila dracme: le riserve valutarie dello Stato, riposte e conservate con ogni cautela.
In quel momento comincio un nuovo giro di battutacce con il personale del caveau. Allusioni, ammiccamenti… Nessuno faceva caso a me. Era come se non ci fossi, dal momento che indossavo l’uniforme della marina e tutti sapevano che ero lo schiavo degli ufficiali ragionieri. Non avevo diritto di parola ne di opinione. Forse mi avrebbero dato un po’ piu di importanza se avessero saputo che ero armato. Ma forse non sarei potuto essere armato se avessero collocato un metal detector.
(ragazzi, e tempo che pensiate a collocarne uno…)
Osservavo le guardie. Fancazzisti di professione – uno aveva una pancia che non finiva piu – abituati a sorseggiare caffe mollemente sdraiati sulle loro sedie, sempre con la pistola alla cintura, naturalmente, anche se forse neanche si ricordavano piu come si usava. Era arrivato il momento di cominciare la procedura di carico delle mazzette. Prendevo di nuovo in mano il denaro, che forse, tra qualche ora, sarebbe stato tutto mio… Riempii undici sacchi, ma il denaro sembrava non finire mai. Occorsero altri sacchi, quattro per la precisione, piu i due zainetti del Distaccamento Orto Botanico. Erano all’incirca tre miliardi. Mi domandai a che cosa servissero. Cazzo, era Pasqua. Servivano a pagare la quattordicesima. Quei bastardi di ufficiali ne avrebbero avuti di piu. Ecco una cosa che mi era sfuggita. E che mi veniva come il cacio sui maccheroni. Che cosa avrei fatto del miliardo in piu? Ci avrei pensato in seguito.
(se sara possibile)
(se sarai ancora vivo)
E le valigie? Sarebbero bastate? Con ogni probabilita no. Avevo calcolato grosso modo le dimensioni di un mattone ed ero certo che due miliardi ci sarebbero stati. Tre, era difficile. In ogni caso, ci avrei pensato dopo, anche a costo di bruciarli.
(dubito che ce la farai)

Ore 10.10
Uscimmo nel cortile interno, dove ci aspettava il furgoncino. Niente era cambiato. Si trattava di un vecchio Ford Transit. Il portellone laterale era spalancato e il conducente si trovava gia al volante con il motore acceso. Davanti al furgoncino blindato c’era la jeep con gli uomini-rana. Scoppiarono ancora aridere. Non potevano certo immaginare quel che li aspettava. Il sottufficiale latro gli ordini:
“Forza, tutti a bordo. Bunamis, sul furgoncino”.
Guardai l’uomo-rana che arrivava. Non l’avevo mai visto prima, perlopiu si trattava di reclute giovanissime, fresche di addestramento, che si credevano padroni del mondo. La recluta in questione era un tipo biondo che piu biondo non si puo. Pero sembrava una solenne testa di cazzo. Al polso portava un “Rolex GMT” nuovo di zecca con la ghiera rossonera. Un vero spreco. Con il volto contratto per il dolore, caricai i sacchi e salii a bordo. Il mio posto era dietro a destra, sopra i sacchi pieni di soldi, accanto a un aggeggio d’acciaio che occupava la meta dello spazio. Era una grande cassetta di sicurezza. Quelli all’interno vi riponevano sacchi pieni di denaro e gli altri aprivano dall’esterno senza venire in contatto con il resto del veicolo. Ero letteralmente chiuso in una scatola d’acciaio. Soltanto davanti a me il campo era libero. Mi bastava e nel contempo mi avrebbe tenuto al riparo. Mi sedetti sui miliardi..

Ore 10.11
Entro nel furgoncino con in mano il G3. Sorrideva. Sembrava felice. Perche no? Non aveva problemi ne preoccupazioni di sorta. La flotta di suo padre navigava in tutti i mari del mondo generando un flusso continuo di soldi, gli studi all’universita di Londra, peraltro inutili, dal momento che il posto di direttore nell’azienda paterna non glielo toglieva nessuno, si erano conclusi. Due mesi prima aveva completato l’addestramento ed era diventato uomo-rana piu facilmente di quanto immaginasse.. Aveva vinto un’altra scommessa con se stesso. Oggi c’era soltanto questa missione da compiere prima di rincasare con la prospettiva di una notte brava. La sua Porsche nuova di pacca era parcheggiata davanti alla caserma. Ce l’aveva da appena cinque mesi. Era riuscito a convincere suo padre a comprargli il modello turbo. “Non c’e paragone, papa, e costa solo venti milioni in piu”. Poi c’era stato il problema del colore. Nera con la banda rossa dei freni a disco? O blu scuro con il salotto in pelle color crema? No, troppo banale. Meglio rossa. O argento. No, troppo discreta. Trovato, rossa! Rossa come il fuoco! Pensava al momento in cui sarebbe salito sul suo bolide, al profumo aristocratico della pelle e al telefono di bordo, un prodigio della tecnologia. Voleva telefonare a Lisa e chiederle cosa intendeva indossare quella sera. Una minigonna? Quanto mini? E una volta in macchina gli avrebbe fatto quello che gli aveva fatto la volta precedente? Si, la vita era bella, per quello aveva un sorriso perenne stampato sulle labbra. E perche aveva evitato quei cazzoni dei suoi compagni sulla jeep. Dio, ci mancava soltanto quel tirchio di Kongas che puzza come una carogna, o quel coglione di Vazeos. Per fortuna ha pensato a tutto Andreu. Lo tengo per le palle, quello stronzo! L’istruttore dei miei stivali, che se la fa con i travoni. Anzi, con le travone, come dice lui, che razza d’invertito. Una mia parola ed e fottuto, ah, ah! Si sistemo sul sedile posteriore del furgoncino blindato e continuo a sorridere. Non gli passava affatto per il cervello che forse non era tanto migliore di tutti quelli che lo circondavano.

Ore 10.12
Gli ufficiali ragionieri salirono per ultimi. Il perfetto coglione della caserma Palaskas e un altro salirono sul sedile anteriore, accanto al conducente, e il mio, del D/BOT, dietro, accanto all’uomo-rana.
Vidi la jeep mettersi in marcia, e ci muovemmo anche noi. Il nostro conducente era un tipo sui quarant’anni, con lo sguardo torvo e la barba di tre giorni. Indossava un giubbotto di cuoio con collo di pelliccia. Avevo notato un cellulare nel taschino della sua camicia e una pistola alla cintura. Con la ricetrasmittente annuncio la partenza e comincio a seguire a brevissima distanza la jeep che ci precedeva. Ogni tanto comunicava la nostra posizione con la ricetrasmittente. Finimmo imbottigliati anche se Beghleris aveva acceso la sirena.

Ore 10.19
Mi sentivo lo stomaco sottosopra, avevo conati di vomito e il corpo madido di sudore. Le costole mi facevano un male cane. Stringevo i denti per non gemere dal dolore. Ogni tanto sfioravo la pistola e il telecomando da sopra i pantaloni.
(sei sicuro di esserne capace?)
Devo, devo, devo. Posso farcela. Posso!
(sei ancora in tempo per mandare all’aria tutto)
Calma e sangue freddo, del resto siamo ancora lontani dal punto zero. Calma, cerca di rilassarti, concentrati sulle stronzate dei tuoi compagni.
“Te la sei scopata quella li con quelle tette enormi? Come chi, la tua collega!”.
Mi asciugavo senza sosta il sudore e guardavo l’orologio.

Ore 10.31
La dentro era un forno. Il cuore batteva all’impazzata, faceva male, il caldo era insopportabile, c’era un ronzio incessante, voci confuse, polvere, sporco, puzza di sudore e di chiuso, migliaia di biglietti di banca passati da miriadi di mani, che vi avevano lasciato sopra microni e untume. Il furgoncino blindato procedeva dritto verso l’inferno. Adesso marciavamo piu veloci, Beghleris con la sirena si faceva largo in mezzo alle macchine ferme ed eravamo sempre piu vicini alla destinazione finale.

Ore 10.35
Con tutta la cautela del mondo comincia a sfilare il telecomando. Il nastro isolante si staccava dalla pelle strappandomi i peli. Pero non mi faceva male, sentivo soltanto il sudore che colava, fiumi di sudore che bruciava come olio bollente. Quando ebbi terminato l’operazione, stavamo gia percorrendo il viale. Non mi aveva notato nessuno. Nessuno si era voltato a guardarmi neppure una volta. La meta di loro forse ignorava persino la mia presenza la dietro.
(non temere, tra non molto se ne accorgeranno)
Presi la pistola e cominciai a estrarla piano piano. Tolsi la sicura e mi assicurai che fosse pronta a spargere la morte. Eravamo nei pressi della caserma. Svolta, Begleris, svolta, coglione, ti prego, prendi la scorciatoia, non fermarti al semaforo, sei un nonno, possibile che non conosci la strada piu breve? Svolto a un tratto senza rallentare, non avendo visto alcun veicolo giungere in senso contrario. Grazie, Beghleris.
(la ricompensa tra poco)
Imboccammo la strada sterrata e fummo costretti a rallentare. Un ultimo passo, estrassi la scatoletta di plastica e l’aprii. All’interno c’erano due tappi di cera per le orecchie. Me li infilai in fretta. Subito l’acutezza del mio udito diminui notevolmente. Passammo davanti a un grande cantiere, non si scorgevano altri veicoli. La mia rimessa si trovava a due isolati di distanza. Il momento era arrivato. Non avevo mai provato, ne avrei potuto farlo, il funzionamento della bomba per valutare tutti i parametri a esso collegati. Non avevo idea degli effetti che avrebbe prodotto l’onda d’urto sul nostro veicolo ne della reazione del conducente e tutto il resto. Immaginavo che avrebbe frenato con un gesto istintivo e che subito dopo se la sarebbe data a gambe. Ma si trattava soltanto di supposizioni. La realta era sempre diversa. E ormai era troppo tardi per scoprirlo. Le battute continuavano senza sosta. Adesso! Adesso! Rivolsi il telecomando verso il culo della jeep davanti a noi e…

Ore 10.39.31
Premetti il pulsante.
Click.
(non… non e successo niente! Non e successo niente!)
CLICK!
E la mia vita cambio per sempre.


....................................................................................



Capitolo nono
Scappare



Mercoledi Santo 10 aprile 1996



Ore 00.58


Ero arrivato. Uscendo mi colpi il vento del bosco, fresco e profumato. La pioggia, qui, non era caduta, la terra era asciutta. Feci due giri intorno alla macchina per sgranchirmi le gambe, sempre tormentato dalle mie costole doloranti. Cominciai a dirigermi verso casa. Il buio era quasi completo e facevo fatica a non smarrire la strada.

Ore 01.08
Arrivai davanti al portone di ferro. Non era chiuso a chiave. Lo spinsi e lo aprii nel silenzio piu assoluto. Seguii il sentiero in terra battuta che conduceva verso casa. Di li a poco la scorsi in mezzo agli alberi, illuminata da una luce giallognola prodotta da alcune lampade da giardino a forma di fungo. Quandi mi avvicinai di piu, vidi che aveva dipinto i muri con un’orribile vernice blu e aveva costruito una rimessa di legno per due automobili. Tutto il resto si trovava al solito posto, esattamente come lo ricordavo. La camera da letto, al piano superiore, era iluminata, cosi come il salone al pian terreno. Un filo di fumo grigio usciva dal comignolo, indizio che il camino era acceso. Adesso ero vicino a un fungo luminoso, e dovevo stare attento. Ripresi il cammino correndo di albero in albero, finche raggiunsi il mio ulivo preferito. Il tronco robusto era coperto di crepe e di fessure. Mi inginocchiai e infilai un braccio, fino al gomito, in una di quelle cavita. Ne estrassi una scatola di metallo arrugginito. L’aprii non potendo evitare un cigolio, e presi il revolver di mio padre, avvolto in un panno di cotone. In un angolo della scatola c’erano alcune pallottole avvolte in un sacchettino di plastica. Provai l’arma. Funzionava alla perfezione. Clack. Il tamburo girava senza problemi. Lo caricai con cautela e poi, sempre facendo grande attenzione, mi diressi verso la veranda che stava davanti a me. La casa era immersa in un silenzio assoluto. Di Pavlos nessuna traccia. Provai ad aprire la porta d’ingresso. Era chiusa. Mi avvicinai alla porta della veranda, provai ad aprirla e questa volta ebbi successo. Infilai la testa all’interno con movimenti molto lenti. Il salone era vuoto e si udiva soltanto il piacevole crepitio della legna che arde. Muovendomi in punta di piedi mi diressi verso la scala a chiocciola. A poco a poco cominciai a sentire lo scroscio dell’acqua. Era sotto la doccia. Voltai la testa verso il camino. Il mio sguardo si soffermo su un dipinto mai visto prima. Sempre tenendo il dito sul grilletto, mi avvicinai per osservarlo meglio.. Non mi intendevo di arte ne quello era il momento migliore per occuparmene, tuttavia non riuscivo a staccare lo sguardo da quel quadro. Mi avvicinai ancora di piu. Raffigurava una Bentley verde degli anni Trenta, che sembrava sospesa nel vuoto, in viaggio nell’infinito, sulle ali del sogno. Dov’e che mio fratello si era procurato quel dipinto meraviglioso? Lessi la firma in basso a destra. “Adamakis ’94”. Voltai la testa e lo vidi. Tutto accadde in un lampo.
La fine. Un’esplosione di sentimenti e di immagini. Arriva e distrugge tutto senza che neanche te ne accorga. Ti senti terrorizzato, ti senti legato a una stanza che brucia. Cerchi di fuggire, ma non ci riesci, le fiamme ti avvolgono e ti inghiottono a poco a poco…
Vieni.

Ore 01.13
Il boato della pistola squarcio il silenzio della campagna, gridando una morte improvvisa e inaspettata. Lo stesso fragore che generava sofferenza si spense in un lampo, riecheggiando nei terreni circostanti e lungo i colli scoscesi che circondavano l’edificio isolato. Poi, come una lenta nevicata, il silenzio riprese con dolcezza il sopravvento. Rispetto all’eternita del mondo naturale niente era cambiato. I complessi meccanismi di quest’ultimo continuavano a funzionare indisturbati, le sue forze invisibili ad agire come sempre. Soltanto nella casa illuminata, al livello fragile e insignificante degli uomini, si era verificato un cambiamento: una vita umana era stata spezzata. Un corpo esanime con la testa perforata da una pallottola giaceva sul parquet accanto al camino. Schizzi di sangue erano sparsi ovunque. Altrettante tracce appena visibili del delitto. Come se un disperato meccanismo di autodifesa si fosse messo in azione: migliaia di soldatini microscopici – ciascuno grande quanto una gocciolina di sangue – erano stati scagliati in ogni angolo visibile e invisibile, affinche un giorno l’occhio esperto di un poliziotto della scientifica li individuasse e desse un contributo decisivo alle indagini per scoprire l’assassino.
Piegata di lato, quasi nascosta dietro un’enorme colonna di legno, ossia la gamba di una sedia, stava una pallottola di piombo. Era deformata, simile a un’automobile accartocciata in uno scontro frontale. La sua esistenza era finita. La sua missione era compiuta. Era stata scagliata a una velocita fenomenale e nel giro di qualche millesimo di secondo aveva infranto la barriera del suono. Poi si era imbattuta quasi subito in un oggetto solido, che aveva perforato distruggendone il contenuto, infine era uscita dall’altra parte descrivendo una parabola ed aveva interrotto il suo volo contro un muro di pietra, ai piedi del quale si trovava adesso.

Ore 01.14
L’uomo in piedi cercava di restare immobile. Le gambe gli tremavano, il respiro era affannoso e il cuore gli batteva all’impazzata. In una mano reggeva una pistola che aveva appena sparato un’unica pallottola. Una quantita inconcepibile di pensieri gli trivellava il cervello. In particolare uno. Si era macchiato di omicidio. Aveva troncato una vita umana. Fatto grave. Terribile. Ancora di piu, se la vittima e il fratello del carnefice.
L’uomo si era seduto. Lasciava trascorrere i minuti. Il tempo non era un problema. Suo fratello era appena passato all’eternita e lui aveva tutta la notte davanti per agire. Fino a quel momento avrebbe cercato di abituarsi al suo nuovo ruolo: quello del fratricida. Si diresse verso il mobile bar. Era pieno di whisky pregiati. Scelse una bottiglia di Bushmills invecchiato ventun anni e riempi a meta un bicchiere di cristallo. Con un gesto lo svuoto quasi completamente, e con il secondo bevve anche il resto, poi ne se ne verso ancora un po’. Lo bevve tutto d’un fiato e si appresto a recitare la sua parte…